Convertire ad uso abitativo parti comuni esistenti qualifica aumento di carico urbanistico
Scottante e oneroso il tema sui cambi di destinazione con le regioni.
Ricevo molto spesso quesiti sull’argomento che ho già trattato in diversi articoli e video, il più gettonato merita questa risposta.
Attingendo dal fondamentale trattato di Vitruvio si riprendono i tre concetti dell’edificio:
- Utilitas (utilità nella funzione);
- Firmitas (solidità nella statica e nei materiali);
- Venustas (venustà, bellezza, estetica);
La destinazione d’uso come concetto di funzionalità si insinua senza dubbio nella Utilitas; tanto è che essa qualifica la connotazione funzionale del bene immobile rispetto al contesto in cui è inserito.
Il riferimento o rapporto tra immobile e contesto è di tipo urbanistico: è un rapporto duale tra singolo vs collettività.
Se ci pensiamo bene un cambiamento funzionale di un immobile può avere effetti anche rilevanti sul contesto circostante: facendo un esempio estremo, ipotizziamo una vecchia casa di contadini trasformata a parità di volume in un condominio di bilocali, si configura un discreto impatto, non c’è che dire.
Ecco perchè l’aspetto funzionale dell’immobile, e quindi la destinazione d’uso, non può essere trattato in maniera superficiale dalla pianificazione territoriale.
E quindi è difficile spiegare alla Signora Marcella che non è padrona a casa propria, neppure sulla funzione dell’immobile.
Proprio perchè le funzione hanno un certo impatto sul territorio e contesto circostante, il legislatore ha imposto fin dalla L. 10/1977 una ferrea disciplina relativa ai mutamenti di destinazione d’uso, assoggettandola ad onerosità.
Pochi anni dopo ha “ammorbidito” la disciplina concedendo alle regioni la potestà di differenziare quali mutamenti d’uso siano soggetti al Permesso di Costruire e quelli in edilizia “minore” (una volta Autorizzazione edilizia, poi DIA, e oggi SCIA).
Anche dopo le riforme del Decreto ‘Scia 2’ D. Lgs. 222/2016 (ne parlo in questo video corso) resta ferma la facoltà delle regioni ai sensi del comma 2 dell’art. 10 del d.P.R n. 380 del 2001, che dispone «le regioni stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a segnalazione certificata di inizio attività».
Video dal canale YouTube:
E’ importante sottolineare che alle regioni è stata conferita una importante delega sui mutamenti di destinazione d’uso.
Limitando questo articolo alla disamina dei principi a livello nazionale del Testo Unico per l’Edilizia DPR 380/01, occorre focalizzare invece i limiti di “impedimento” ai cambi di destinazione d’uso da parte di norme regionali e strumenti urbanistici comunali.
Infatti la giurisprudenza aveva da anni individuato i passaggi interni ed esterni tra categorie urbanistiche (urbanisticamente rilevanti , ndr), statuendo un principio equo e condivisibile, proprio in relazione a quel famoso rapporto duale tra funzione del singolo immobile nei confronti del contesto circostante.
Come (troppo) spesso accade, il principio è stato ripreso dal legislatore, con l’inserimento dell’art. 23-ter nel TUE tramite il Decreto ‘Sblocca Italia” del 2014.
Esso è emerso dal tema dei reati edilizi, specificando che il mutamento di destinazione d’uso senza opere fosse assoggettato a:
- Denuncia di Inizio Attività (DIA) e oggi SCIA purché nell’ambito della stessa categoria urbanistica;
- Permesso di Costruire per le modifiche di destinazione comportanti passaggio di categoria;
- Permesso di Costruire per il cambio d’uso eseguito nelle zone omogenee A (centri storici e assimilati) anche all’interno di una stessa categoria omogenea;
Tale orientamento di lungo periodo proviene ad esempio da Cass. Pen. III n. 26455/2016, n. 39897/2014, n. 42453/2015, n. 3953/2014.
La ratio giustificativa di questo orientamento per il cambio di destinazione d’uso era fondata sull’esigenza di evitare il pericolo di compromissione degli equilibri prefigurati dagli strumenti urbanistici in relazione al corretto e ordinato assetto del territorio (Cass. Pen. III n. 26455/2016).
In prima battuta il Legislatore nazionale ha individuato con l’art. 23-ter del TUE le ipotesi di mutamento rilevante della destinazione d’uso, ovvero ogni forma di utilizzo dell’immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, anche senza opere edilizie, tale da comportare il passaggio tra le seguenti categorie funzionali elencate:
a) residenziale;
a-bis) turistico-ricettiva;
b) produttiva e direzionale;
c) commerciale;
d) rurale.
Lo stesso articolo consente alle regioni di legiferare e dettagliare meglio il tema, come ad esempio ha fatto la regione Toscana con la L.R. 65/2014.
La questione dei cambi d’uso nei centri storici è esplosa col “caso Tornabuoni” di Firenze, il quale ha gettato i riflettori su un caso nazionale, verso il quale il legislatore sembra si sia adoperato a modificare la categoria di intervento del Restauro e Risanamento conservativo, per la quale ha previsto e ammesso (sempre condizionatamente) il cambio di destinazione d’uso.
Attenzione: con questa modifica il legislatore non ha cambiato l’art. 10 del TUE sulla ristrutturazione pesante, a mio avviso resta fermo il principio per cui il cambio di destinazione d’uso nei centri storici sia inquadrato come ristrutturazione “pesante” quindi soggetta a Permesso di Costruire, oppure se vi piace, la SCIA alternativa al Permesso.
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CARLO PAGLIAI, Ingegnere urbanista, esperto in materia di conformità urbanistica e commerciabilità immobiliare
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