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Col Decreto del Fare il ripristino degli edifici crollati rientra nella ristrutturazione edilizia

I limiti planivolumetrici e di sagoma caratterizzano lo spartiacque col regime di nuova costruzione

Facendo riferimento all’ottime analisi pubblicate in un saggio a firma degli Avvocati Andrea Di Leo e Livio Lavitola sul tema della demolizione e ricostruzione, trovo opportuno proseguire il tema perchè sempre più di attualità nel regime dei diritti edificatori.

Fino all’avvento del c.d. Decreto del Fare n. 69/2013, poi convertito in L. 98/2013, la definizione di ristrutturazione edilizia (art. 3 c.1 lettera d del DPR 380/01) aveva un “limite superiore” che comprendeva gli interventi di demolizione e ricostruzione con medesima volumetria e sagoma di quello preesistente, eccettuato le sole innovazioni per l’adeguamento antisismico.

Tale tipologia di intervento quindi non faceva scattare il regime di nuova costruzione qualora siano rispettate e invariate le volumetrie e sagome preesistenti; in caso contrario si esce dal regime di ristrutturazione edilizia per confluire in quello di “sostituzione edilizia“, non qualificato nel TUE, e quindi in nuova costruzione.

La definizione di ristrutturazione edilizia anteriore al Decreto del Fare non faceva neppure cenno alla possibilità o meno di demolire e ricostruzione con traslazioni di sorta, aspetto che la giurisprudenza amministrativa ha ampiamente trattato (leggi approfondimento).

Degno di nota è la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 27, c. 1, lett. d) ultimo periodo della L.R. Lombardia n. 12 del 11.3.2005 nella parte in cui escludeva l’applicabilità del limite della sagoma alle ristrutturazioni edilizie mediante demolizione e ricostruzione.
Invero, stante il principio enucleabile dall’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001 (vigente anteriormente alla modifica normativa qui in commento), un intervento di demolizione e ricostruzione che non rispetti la sagoma dell’edificio preesistente configura un intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione edilizia (Cit. Di Leo e Lavitola).

La questione nodale era dimostrare l’effettiva consistenza del manufatto previgente

I diritti edificatori ricostruttivi sono commisurati all’inconfutabile consistenza, riscontrabile con documentazione probante e sufficiente da consentire l’effettiva ricostruzione in situ della preesistenza.

E’ il tipico caso della ricostruzione dei tanti volumi ridotti a ruderi nelle campagne d’Italia, di cui spesso non si può rinvenire alcuna documentazione sufficiente a ricostruire con massima aderenza il suo stato preesistente.
Si tratta di quella parte del patrimonio edilizio esistente situato in territorio aperto e lasciato in abbandono da oltre quattro decenni, se non di più.

In quel caso sarà arduo riscontrare negli archivi comunali atti ed elaborati contenenti planimetrie, sagome e volumi, in quanto trattasi di patrimonio sicuramente edificato in epoca e ambiti territoriali quando non vi era obbligo di licenza edilizia (salvo casi particolari, ndr).

Utilizzare i documenti catastali ? Altamente difficile, posto che l’obbligo di accatastare gli immobili rurali al Catasto Urbano/Fabbricati si è gradualmente affacciato a fine anni Ottanta per essere prorogato continuamente fino ai giorni nostri, in ultimo la “saga degli immobili fantasma” può testimoniare l’inadempienza in tal senso.

E comunque, la documentazione catastale oltre a non essere sufficientemente dotata di elementi di natura urbanistica (volume, altezze esterne, sagoma, prospetti, ecc) deve anche essere depositata nelle idonee epoche ai fini della legittimazione sul profilo urbanistico (ante ’67, per esempio).

I cosiddetti ruderi possono trovarsi nella condizione di avere idonea documentazione probante la preesistenza a certe epoche, ma non sufficiente a dimostrare l’effettiva consistenza

Se da una parte l’attuale proprietario di un immobile crollato può dimostrare che “qualcosa esisteva” mediante aerofotogrammetrie, dall’altra queste non sono sufficienti per poter individuare “al centimetro” sagoma, volume, superficie coperta, prospetti, finiture materiche, e quant’altro.

Per sopperire a ciò sarebbero idonei ulteriori mezzi di prova come documentazione fotografica con data certa e depositata agli atti pubblici, in grado di fornire chiari caratteristiche del fabbricato, in grado di testimoniarne l’aspetto preesistente.

Attenzione: non sarebbero sufficienti, in quanto la “ragioneria urbanistica” esige la determinazione al centimetro del previgente stato.

Anche la giurisprudenza concordava con la distinzione circa la probatorietà dello stato preesistente: <<la possibilità di riedificare un edificio crollato da tempo, “è da considerare non ordinaria”, ed è pertanto corretto che l’amministrazione, in simile ipotesi, “si preoccupi di assicurarsi che la ricostruzione comporti la fedele riproduzione di quello che esisteva in origine, anche con riferimento alla distribuzione degli spazi interni”. Quanto all’onere che ricade su chi intenda avvalersi di previsioni del genere, “non può ritenersi che sia sufficiente al privato provare la preesistenza dell’edificio e che eventuali difficoltà probatorie, di ordine oggettivo (quale la mancanza di testimonianza catastale) possano essere superate da elementi indiziari o presuntivi”, infatti a fronte di una disposizione che “abilita a un intervento non ordinario, (…), quale è consentire la ricostruzione di edifici da tempo crollati” è doveroso che la stessa richieda “che la ricostruzione sia assolutamente fedele alla preesistenza e richiede a tal fine elementi certi (testimonianze catastali o notarili, queste ultimi tali da consentire l’identificazione esatta dell’immobile)”, con la conseguenza che “l’intervento sarà consentito se oggettivamente il privato sia in grado di provare la fedele corrispondenza della ricostruzione con il preesistente”.>> (Cfr. Di Leo e Lavotila in riferimento a TAR Lombardia, Bs, I, 9.12.2010, n. 4808 e da CdS, IV, 30.5.2005, n. 2822).

Quindi il problema di determinare, e sopratutto dimostrare lo stato ante crollo, diventa simile all’esame di Restauro per chi ha frequentato le facoltà di Architettura e Ingegneria edile.

ripristino edifici crollati: tra ristrutturazione e nuova costruzione

Quanto sopra vale per l’intero organismo edilizio o sue porzioni, in quanto il legislatore intende impedire il rischio di ingiustificati aumenti del carico urbanistico, a prescindere dall’ambito territoriale in cui si trova l’immobile diruto.

Tant’è che nella definizione della categoria di ristrutturazione edilizia il legislatore prontamente puntualizza:

<<nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purche’ sia possibile accertarne la preesistente consistenza>>.

L’oggetto in questo caso è appunto il c.d. “organismo edilizio” nel suo insieme, infatti si parla di ripristino di edifici o parti di essi; quindi il ripristino di un corpo di fabbrica nei confronti di un più ampio fabbricato soggiace allo stesso regime.

Altro aspetto da puntualizzare: il ripristino di manufatti non è condizionato alla motivazione dello stato di dissesto (meno male), in quanto nella definizione si legge “eventualmente crollati o demoliti”; ciò sottolinea l’indifferenza delle cause dello stato attuale diruto, rafforzato addirittura da “eventualmente”.

Se il pensiero va agli immobili gravemente lesionati dal sisma, è bene rammentare che in tali contesti entrano in campo regimi e provvedimenti speciali che derogano l’attuale ordinamento, appunto per semplificare e velocizzare le fasi di ricostruzione.

Il diritto edificatorio di ricostruzione del rudere

Certamente questo è un problema che è venuto continuamente a galla per gli edifici danneggiati dagli eventi sismici; diciamo che le nostre campagne presentano molti edifici ex rurali in stato di abbandono, caso non infrequente, e che in Toscana sopratutto, hanno visto una stagione di ripristini.

Col Decreto del Fare, poi L. 98/2013, il legislatore rivoluziona il concetto di ristrutturazione, e di demolizione/ricostruzione attraverso contestuali modifiche:

  • definizione generale di ristrutturazione edilizia: in essa sono ricompresi anche quelli “volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza” (art. 3 c.1 lett. d TUE); 
  • definizione ristrutturazione edilizia “pesante” soggetta a PdC:
    – sostituiti i criteri condizionali di aumento di unità immobiliari, modifiche di volume, di sagoma, di prospetti o superfici, col criterio della modifica di “volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti”;
    – rientrano in tale definizione anche gli interventi che comportano modifiche alla sagoma degli immobili vincolati col Codice dei Beni culturali;

Infatti tale possibilità ribadita per immobili soggetti ai vincoli del Codice dei beni culturali D.Lgs 42/2004 (vincoli storici, etnoantropologici, beni culturali, paesaggistici “galassini” e di notevole interesse pubblico), per i quali infatti rimane il vincolo del mantenimento di sagoma in tutte le ipotesi; qualora vi sia modifica di sagoma per essi, scattata in automatico l’assoggettamento al Permesso di Costruire.

L’intervento legislativo in tal senso è volto riqualificare il patrimonio edilizio esistente e contestualmente per evitare ulteriore consumo di suolo.

Per ciò, e in maniera condivisibile, il criterio separante il regime di ristrutturazione da quello di nuova edificazione si è focalizzato sul concetto di volumetria preesistente.

Il problema adesso, come già accennato, si sposta dal piano giuridico a quello tecnico pratico, in particolare appunto per il ripristino di edifici crollati.

Per ripristino dobbiamo intendere l’ipotesi di intervento finalizzata a ricostruire il fabbricato “com’era, dov’era”, col medesimo carico urbanistico inquadrabile appunto della volumetria preesistente.

Ritengo che anche il mantenimento della previgente destinazione d’uso legittimata o dimostrabile con documenti probatori debba rimanere invariata.

Infatti, se leggo correttamente la ratio della norma e la sua configurazione, il principio che emerge è il seguente:

Il ripristino del preesistente carico urbanistico è un diritto imprescindibile; un carico maggiore comporta nuova costruzione

Infatti, croce e delizia dell’urbanistica italia è appunto l’aggravamento della destinazione d’uso e volumetria sul territorio senza adeguarne le circostanti dotazioni territoriali e standard urbanistici, col rischio di peggiorare l’equilibrio dell’assetto del territorio.

Il ripristino del manufatto, al netto di disposizioni regionali e regolamentari locali, in base al combinato disposto degli artt. 3 e 10 del TUE è fattibile con SCIA (una volta DIA) se:

  • non comportano modifiche alla volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti;
  • non comportano modifiche di sagoma per immobili vincolati dal Codice;
  • sia possibile accertarne la preesistente consistenza;

Vorrei sottolineare il fatto che a livello nazionale il Testo Unico non dispone neppure limitazioni in senso temporale o cronologico; non pone divieti in tal senso per cui è ricostruibile l’immobile del nonno crollato circa cinquant’anni fa.

Il requisito essenziale per il ripristino del manufatto è l’accertata preesistenza

In caso contrario, in assenza di documentazione probante, idonea a dimostrare con un sufficiente grado di attendibilità la precedente configurazione dell’organismo edilizio, non è consentito alcun ripristino totale o parziale.

La documentazione dovrà essere analizzata nel suo insieme e avere data certa, o quanto periodizzazione congruente; elementi discordanti tra le reciproche documentazioni non saranno di aiuto e al contrario possono mettere in dubbio la ricostruzione filologica dello stato legittimo.

L’assenza di documentazione certa, probante e inconfutabile, cioè capace di fornire una idonea ricognizione dello stato legittimo “esistente” o preesistente, impedisce tout court la possibilità del “ripristino semplificato” del manufatto mediante SCIA (prima DIA).

Quindi se l’avente titolo, proprietario o interessato che sia, non dimostra o riscontra idonea documentazione accertante (cioè di rendere certo) lo stato legittimo preesistente, non detiene automaticamente il diritto edificatorio semplificato alla sua ricostruzione.

Piuttosto si troverà balzato suo malgrado nel più severo regime di nuova costruzione e pertanto dovrà richieste il Permesso di Costruire come se fosse ex novo in entrambi i casi:

  • insufficiente grado di certezza, chiarezza e accertabilità della preesistente consistenza: Es. uso di aerofoto d’epoca, schemi rilevamento del Catasto Terreni, documentazioni fotografiche di famiglia, prove testimoniali, atti notarili; 
  • assenza di documentazione: l’esistenza dell’immobile è documentata e citata da fonti attendibili, ma risulta assente una idonea banca dati o documentazione archivistica, per non parlare dei “diversi casi” in cui è distrutta da incendi;

In queste ipotesi il proprietario del presunto manufatto preesistito si trova nella stessa condizione di chi ha un appezzamento di terra completamento privo di edifici.

Praticamente azzerato il proprio diritto edificatorio, per il quale dovrà/potrà solo avviare la strada della richiesta di Permesso di Costruire e convincere il competente organo al rilascio del titolo edilizio.

Per i casi di ripristino e demo-ricostruzione nelle zone omogenee A (centri storici o similari) si rinvia a questo approfondimento (Clicca qui).

L’intero argomento del ripristino merita particolare attenzione in quanto, come una reazione a catena, i presupposti di falsità o insufficiente dimostrazione riscontrata in futuro sul ripristino stesso può compromettere anche gli aspetti connessi alla commerciabilità e trasferibilità.

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carlo pagliai

CARLO PAGLIAI, Ingegnere urbanista, esperto in materia di conformità urbanistica e commerciabilità immobiliare
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