La Giunta comunale approva i piani attuativi qualora compatibili con lo strumento urbanistico generale vigente, il Consiglio Comunale quando comporta variante ad esso.
Le definizioni nazionali prevalgono su quelle previste nel Piano Regolatore e Regolamento Edilizio comunale
Nell’analisi degli strumenti urbanistici comunali (PRG) e regolamenti edilizi di vecchia generazione è possibile trovare scritto al loro interno una apposita disciplina delle categorie di intervento edilizio.
A meno che non siano stati oggetto di revisione degli ultimi 15-20 anni, non ci dobbiamo stupire se nel Piano Regolatore troviamo indicate definizioni e categorie di ristrutturazione edilizia disallineate rispetto al Testo Unico Edilizia DPR 380/01.
Potremmo trovare anche intere famiglie o sottocategorie di ristrutturazioni edilizie, più o meno graduate in base alla possibilità di interventi; queste tipologie di intervento interne ai PRG erano poi attribuite alle zone territoriali o agli edifici in maniera particolareggiata.
La cosa più importante è che questi Piani Regolatori e Regolamenti edilizi comunali di vecchia concezione, oltre a prevedere una autonoma qualificazione delle categorie di interventi, le agganciavano unilateralmente alle procedure edilizie (SCIA, DIA, CILA, Permesso di Costruire, ecc).
I Comuni in passato hanno qualificato in via autonoma le definizioni di interventi, oppure integrato con diverse articolazioni quelle previste DPR 380/01.
La stessa incongruenza è avvenuta quando un Piano Regolatore abbia contenuto le identiche categorie di interventi previste da una versione pregressa dell’articolo 3 DPR 380/01 (esempio coordinata col DL 69/2013) per risultare poi superata dalle modifiche sopravvenute al TUE stesso (da ultimo col DL 76/2020).
A dire il vero, non credo di essere l’unico che trova ancora oggi regolamenti edilizi o piani regolatore che contengono le categorie di intervento, procedure edilizie e definizioni vigenti prima del riordino operato dal DPR 380/01.
Certamente, in questo senso e negli ultimi anni le regioni hanno provveduto a :
- coordinare la revisione dei piani regolatori comunali;
- recepire il Regolamento Edilizio Tipo nazionale e approvare il proprio regolamento edilizio tipo regionale, dichiarando incompatibili quelle definizioni comunali in contrasto con quelle sopravvenute.
Facciamo un esempio: un PRG Comunale non può contenere differenti definizioni di ristrutturazione edilizia, disponendo pure quando siano assoggettate a Permesso e SCIA; infatti il Comune andrebbe a variare il campo applicativo delle sanzioni penali e amministrativo, col rischio di emanare ordinanze di demolizione e riduzione in pristino in palese contrasto col DPR 380/01.
Il legislatore, con l’entrata in vigore del DPR 380/01 con l’art. 3 comma 2 ha inteso riordinare anche questo aspetto, “spogliando” ufficialmente i Comuni di questa facoltà:
2. Le definizioni di cui al comma 1 prevalgono sulle disposizioni degli strumenti urbanistici generali e dei regolamenti edilizi. Resta ferma la definizione di restauro prevista dall’articolo 34 del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490. (oggi va inteso il D.Lgs. n. 42/2004 – ndr.).
In passato il rapporto fra le legislazione nazionale, regioni a statuto ordinario e le prescrizioni contenute negli strumenti urbanistici comunali, è stato dibattuto e risolto con l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 2 del 7/04/2008.
Con essa fu ribadito che le disposizioni contenute nel T.U. dell’Edilizia D.P.R. 380/2001, avendo carattere di norme di principio, prevalgono sulla normativa delle Regioni a statuto ordinario in contrasto con esse, le quali risultano addirittura implicitamente abrogate o inefficaci.
In seguito la giurisprudenza non ha lasciato spazi a interpretazioni opposte, confermando ad esempio che i regolamenti edilizi comunali, in quanto fonte subordinata, non possono dare definizioni degli interventi edilizi diverse da quelle previste dalla legge e, laddove ciò accada, trova applicazione il generale principio sancito nell’art. 3 comma 2 T.U.E (Cass. Pen. 30336/2021).
Sempre la stessa sentenza stabilisce chiaramente che:
Una fonte normativa secondaria come il regolamento edilizio non può prevedere che un intervento assoggettato dalla legge a mera s.c.i.a. (o d.i.a.) sia invece assentibile con permesso di costruire per farne derivare, in caso di abuso, l’applicazione della sanzione penale piuttosto che di quella amministrativa, ciò che consentirebbe ai Comuni di rendere penalmente rilevanti condotte che non lo sono, in contrasto con la riserva di legge assoluta che vige in materia penale. Il principio è nitidamente affermato dall’art. 10 comma 3 T.U.E., che, pur consentendo alle leggi regionali (non già ai regolamenti) di individuare ulteriori interventi da sottoporre a permesso di costruire in relazione all’incidenza sul territorio e sul carico urbanistico, ha cura di precisare come, in caso di abuso, ciò non comporti l’applicazione delle sanzioni penali previste dal successivo art. 44.
Dello stesso tenore anche la sentenza di Cassazione Penale n. 9410/2021, la quale conclude che devono essere applicate le categorie degli interventi edilizi definite dalla legge statale, e non già le (eventualmente diverse) definizioni di cui alle disposizioni comunali o regionali, posto che, laddove le stesse non siano coincidenti, a norma dell’art. 3, comma 2, d.P.R. 380/2001, quelle in detto articolo contenute «prevalgono sulle disposizioni degli strumenti urbanistici generali e dei regolamenti edilizi» e che neppure la legislazione regionale può al proposito dettare disposizioni derogatorie (cfr. Corte Costituzionale sentenza n. 21-23/11/2011, n. 309).
Il principio vale sia nei regolamenti edilizi, e anche sui Piani regolatori comunali.
I Piani regolatori possono comunque disciplinare le tipologie di intervento ammesse sugli edifici e territorio
Poiché si tratta di questioni definitorie, esse prevalgono sempre e comunque sulle disposizioni degli strumenti urbanistici generali e dei regolamenti edilizi (art. 3, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001) con la conseguenza che il Comune non può mai consentire, nemmeno a livello di pianificazione generale, interventi che pur formalmente qualificati come di ristrutturazione edilizia di fatto comportano una sostanziale deroga (o ampliamento) dell’ambito applicativo della lettera d) del comma 1 dello stesso articolo 3 DPR 380/01. (Cass. Pen. 23010/2020).
Facciamo però una dovuta precisazione.
Da una parte la disciplina urbanistica comunale non può offrire agli interventi una classificazione diversa da quella ivi stabilita, né traslare i medesimi dall’una all’altra tipologia.
Dall’altra parte è chiaramente consentito che, in sede di pianificazione generale e/o attuativa, possano essere definite le modalità quali-quantitative degli interventi e, quindi, anche limitare la portata di questi ultimi in termini di impatto sull’esistente impianto urbanistico, tanto più quando il singolo intervento si inserisce in un piano finalizzato al risanamento di un contesto urbano secondo linee filologiche di recupero dei caratteri storico-architettonici, anche al fine di ripristinare un armonico sviluppo di una più ampia schiera edilizia (TAR Napoli n. 125/2022, Consiglio di Stato n. 5187/2014).
Il Piano Regolatore comunale può disciplinare e ammettere determinate tipologie di interventi ammissibili in base agli edifici o zonizzazione territoriale; queste tipologie di fattibilità edilizia vanno ricondotte e correlate alle categorie di intervento della legislazione vigente nazionale e regionale.
Tali nozioni e categorie di fattibilità possono risultare trasversali rispetto alla definizione degli interventi edilizi previsti dall’art. 3 del DPR 380/01 (ad es. ristrutturazione, manutenzione straordinaria e risanamento conservativo). E per individuare la corretta categoria di intervento da applicare, si deve usare il principio di assorbenza nella categoria di livello superiore.
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CARLO PAGLIAI, Ingegnere urbanista, esperto in materia di conformità urbanistica e commerciabilità immobiliare
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