Cassazione chiarisce disciplina mutamento destinazione per appartamenti uso ricettivo turistico
L’utilizzo dell’immobile ha duplice incidenza edilizia e urbanistica
La possibilità di utilizzare un immobile o relative parti in certi modi non è libera, ma è limitata da quanto prescritto dalla disciplina urbanistico edilizia, dalla regolamentazione locale a dagli strumenti di pianificazione.
La disciplina dei cambi di destinazione d’uso ha subìto diversi cambiamenti nel tempo, soprattutto con l’impulso dell’originario articolo 25 L. 47/85; oggi la troviamo disciplinata nel Testo Unico Edilizia DPR 380/01 come norma quadro e di principio generale, eventualmente integrata dalle legislazioni regionali.
Infatti non dobbiamo dimenticare che da decenni la normativa sul cambio di destinazione d’uso continua ad essere legata al doppio filo dei carichi urbanistici, delle urbanizzazioni e dotazioni territoriali.
Ci sono voluti decenni per conclamare il rapporto tra mutamenti d’uso degli immobili e l’incidenza sui carichi urbanistici, e dopo tanta giurisprudenza il legislatore si è convinto ad inserire la definizione di mutamenti d’uso urbanisticamente rilevanti nel DPR 380/01 all’articolo 23-ter.
Faccio notare che non mi riferisco al solo incremento del carico urbanistico, bensì alla sua incidenza che può avvenire in pejus che melius (cioè con aggravamento o riduzione); volendo dirla tutta, non è detto che le dotazioni territoriali, urbanizzazioni e standard idonee per una attività/destinazione d’uso sia anche del tutto idonee per un’altra.
Ed ecco perchè appunto, il legislatore usa la nozione “urbanisticamente rilevante”, senza invece sconfinare nel criterio di incremento e riduzione dentro una ipotetica “classifica” dei carichi urbanistici.
Indice
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Definizione di destinazione d’uso
Per comprendere meglio la disciplina del mutamento di destinazione d’uso, urbanisticamente rilevante o meno, occorre prima delineare la definizione di destinazione d’uso dell’immobile, estrapolandola da ultimo dalla sentenza di Consiglio di Stato n. 5593/2022, inquadrato anche come istituto di natura urbanistica:
«La destinazione d’uso è un elemento che qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione. Essa individua il bene sotto l’aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a seconda della diversa destinazione di zona. L’organizzazione del territorio comunale e la gestione dello stesso vengono realizzate attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d’uso in tutte le loro possibili relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono negativamente sull’organizzazione dei servizi, alterando appunto il complessivo assetto territoriale. Lo strumento urbanistico rappresenta l’atto di destinazione generica ed esso trova attuazione nelle prescrizioni imposte dal titolo che abilita a costruire, quale atto di destinazione specifica che vincola il titolare ed i suoi aventi causa. Possono conseguentemente distinguersi: a) una destinazione d’uso urbanistico, riferita alle categorie specificate dalla legge e dal d.m. n. 1444 del 1968; b) una destinazione d’uso edilizio, che attiene al singolo edificio ed alle sue capacità funzionali. Duplice è, dunque, l’esigenza correlata al controllo della destinazione d’uso degli immobili: da un lato quella di assicurare tutela alla zonizzazione funzionale, dall’altro quella di consentire l’applicazione della normativa sugli standard, regolatrice della differenziazione infrastrutturale del territorio» (vedi anche Cass. Penale, Sez. III, 5 marzo 2009 n. 9894).
La destinazione d’uso non è indipendente, ma compartecipa al generale carico urbanistico di un ambito territoriale. La funzione e l’utilizzo dell’immobile avviene attraverso due tipi di utenti, suddivisibili tra fissi e saltuari: prendendo ad esempio un supermercato, i lavoratori sono utenti fissi e la clientela sono saltuari.
Un bene immobile, attraverso la sua funzione, dà luogo ai normali flussi di utenze e di tutti i relativi fabbisogni complementari per svolgere le quotidiane attività previste. Da qui emerge la necessità di realizzare insediamenti umani prevedendo e attuando:
- regolare urbanizzazione primaria e secondaria;
- standard urbanistici e dotazioni territoriali;
- rete infrastrutturale differenziata;
- reti di comunicazioni;
- ecc…
Ecco perchè la destinazione d’uso, quale elemento funzionale dell’immobile, è strettamente connesso alle specifiche previsioni di zona dagli strumenti urbanistici: questo rapporto lega l’un l’altro la destinazione d’uso del singolo immobile a quella dell’insediamento o zona di cui fa parte.
Rapporto tra Governo del territorio e destinazione d’uso
La sentenza del Consiglio di Stato n. 5593/2022 fornisce una chiara lettura del rapporto complementare tra le funzioni degli immobili e il contesto insediativo circostante. E chiarisce bene i motivi per cui non sarebbe possibile ipotizzare una “deregulation” della pianificazione funzionale degli immobili: esiste un saldo rapporto biunivoco tra destinazione d’uso e dotazioni territoriali.
La sentenza stabilisce che:
La disciplina del mutamento della destinazione d’uso è uno dei perni attraverso i quali è possibile operare un effettivo governo del territorio. Se l’ordinamento restasse indifferente ai cambi di destinazione d’uso dei singoli immobili si finirebbe per vanificare la zonizzazione, l’equa distribuzione degli oneri di urbanizzazione, l’effettiva applicazione degli standard urbanistici, la razionale allocazione dei carichi urbanistici. In una parola si renderebbe inutile ogni tentativo di governo del territorio.
Certo esistono anche altre esigenze importanti. Ad esempio quella di non ostacolare ed anzi valorizzare le attività economiche. Una riprova dell’importanza di tale esigenza si rinviene nella copiosa normativa tesa a semplificare e liberalizzare gli adempimenti anche in campo edilizio. È sempre difficile trovare un punto di equilibrio appagante. Cionondimeno esistono situazioni che lasciano intendere quando il legislatore ritiene fondamentale difendere un ordinato (e, per ciò stesso, economicamente efficiente) sviluppo del territorio. La disciplina del mutamento della destinazione d’uso è una di quelle situazioni.
Istituto di natura urbanistica
La destinazione d’uso è un istituto di natura urbanistica, come riporta la sentenza del Consiglio di Stato n. 5593/2022, in quanto:
a) consente la puntuale zonizzazione funzionale del territorio (ad esempio, attribuendo destinazioni d’uso predeterminate, con esclusione o limitazione delle altre, il pianificatore può far sviluppare, in una determinata area, un quartiere residenziale ed in un’altra area un polo terziario-direzionale);
b) incide in maniera determinante sul calcolo degli oneri di urbanizzazione (l’art. 16, 4° comma, d.p.r. n. 380/2001 recita: «L’incidenza degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria è stabilita con deliberazione del consiglio comunale in base alle tabelle parametriche che la regione definisce per classi di comuni in relazione […] c) alle destinazioni di zona previste negli strumenti urbanistici vigenti». Di conseguenza, costruire un determinato immobile destinandolo all’uso commerciale può risultare molto più oneroso, a parità di cubatura e superficie, rispetto alla scelta di una destinazione agricola);
c) definisce i contenuti degli standard urbanistici (a norma del d.m. 1444/1968 i «Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti», non operano in modo uniforme su tutto il territorio comunale, ma secondo zone territoriali omogenee individuate dallo stesso decreto);
d) funge da parametro per la valutazione del carico urbanistico connesso ad un determinato intervento (secondo il quadro delle definizioni uniformi allegato allo schema di regolamento edilizio tipo approvato in attuazione dell’art. 4, comma 1-sexies del d.p.r. 380/2001, per carico urbanistico si intende il fabbisogno di dotazioni territoriali di un determinato immobile o insediamento in relazione alla sua entità e destinazione d’uso; costituiscono variazione del carico urbanistico l’aumento o la riduzione di tale fabbisogno conseguenti all’attuazione di interventi urbanistico-edilizi ovvero a mutamenti di destinazione d’uso).
Istituto di natura edilizia, tipologie e criteri
Sempre dalla medesima sentenza di Consiglio di Stato si può evincere un altro ruolo della destinazione d’uso, cioè come istituto di natura edilizia. Ciò significa che ha valenza anche negli interventi edilizi e nei confronti del singolo edificio in cui è inserita l’unità immobiliare, e pertanto merita un minimo di regolamentazione.
Una prima distinzione possiamo farla tra mutamenti di destinazione:
- all’interno della stessa categoria funzionale di riferimento;
- da una categoria ad un’altra.
Un’altra distinzione assai chiara è tra mutamenti di destinazione effettuati:
- con opere (mutamento strutturale);
- senza realizzazione di opere (mutamento funzionale).
Il legislatore, in ossequio alla giurisprudenza formatasi sul tema, ha riformato la materia dei mutamenti d’uso provvedendo a fare una distinzione tra quello:
- “urbanisticamente rilevante” ;
- “urbanisticamente irrilevante”.
In particolare la distinzione è stata introdotta con il D.L. 133/2014 che ha aggiunto al testo unico per l’edilizia l’articolo 23-ter, che riporto nella forma vigente e aggiornata alle modifiche del D.L. 76/2020:
«Art. 23-ter Mutamento d’uso urbanisticamente rilevante.
1. Salva diversa previsione da parte delle leggi regionali, costituisce mutamento rilevante della destinazione d’uso ogni forma di utilizzo dell’immobile o della singola unità immobiliare diversa, da quella originaria, ancorché non accompagnata dall’esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l’assegnazione dell’immobile o dell’unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate:
a) residenziale;
a-bis) turistico-ricettiva;
b) produttiva e direzionale;
c) commerciale;
d) rurale.
2. La destinazione d’uso dell’immobile o dell’unità immobiliare è quella stabilita dalla documentazione di cui all’articolo 9-bis, comma 1-bis.
3. Le regioni adeguano la propria legislazione ai princìpi di cui al presente articolo entro novanta giorni dalla data della sua entrata in vigore. Decorso tale termine, trovano applicazione diretta le disposizioni del presente articolo. Salva diversa previsione da parte delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici comunali, il mutamento della destinazione d’uso all’interno della stessa categoria funzionale è sempre consentito».
Problemi di coordinamento con altre disposizioni DPR 380/01
Le riforme e modifiche complessive al Testo Unico Edilizia DPR 380/01 apportate negli ultimi hanno non hanno sciolto tutti i nodi sulla materia della destinazione d’uso e relativi mutamenti. Peraltro faccio notare che col D.L. 76/2020 è stata sostituita l’utilissima definizione di destinazione d’uso in termini prevalenti di superficie (ex comma 2 art. 23-ter DPR 380/01) per essere sostituita col rinvio alla definizione di Stato Legittimo. In Toscana tuttavia è stata “ripescata” e reinserita nella L.R. 65/2014.
Ci sono altre disposizioni nel T.U.E. che pongono problemi di coordinamento con la materia dei cambi d’uso
Ad esempio, la diversità definitoria delle categorie funzionali contenute da un lato nella ridetta norma (residenziale; turistico-ricettiva; produttiva e direzionale; commerciale; rurale) e dall’altro nell’articolo 32 dello stesso d.p.r. 380/2001 che definisce variazione essenziale il mutamento della destinazione d’uso che implichi variazione degli standard previsti dal decreto ministeriale n. 1444/1968 (d.m. che individua sei zone territoriali ma non le nuove macro-categorie “turistico-ricettiva” e “produttiva e direzionale” previste nell’articolo 23-ter del d.p.r. 380/2001).
Esistono anche problemi di coordinamento tra l’articolo 23-ter DPR 380/01 e altre norme dello stesso Testo Unico Edilizia rimaste immodificate e segnatamente:
- art. 3 (definizione degli interventi edilizi e, segnatamente, la nozione di «interventi di nuova costruzione»);
- art. 10 (interventi subordinati a permesso di costruire);
- art. 22 (interventi subordinati a segnalazione certificata di inizio di attività);
Infatti il cambio di destinazione tra diverse categorie, anche se operato in assenza di opere, è riconducibile alla categoria degli «interventi di nuova costruzione» di cui alla lettera e) dell’art. 3 del d.p.r. 380/2001 (ovvero «interventi di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti»), con necessario assoggettamento a permesso di costruire ex art. 10, comma 1, lett. a), dello stesso testo unico e al relativo regime contributivo e sanzionatorio.
Sul punto il Consiglio di Stato, Sez. VI, 04/03/2021, n. 1857 ha inequivocabilmente stabilito che «Il mutamento della destinazione d’uso tra categorie funzionali ontologicamente diverse, anche senza opere edilizie, ove realizzato senza permesso di costruire, è sanzionabile con la misura ripristinatoria». Questo perché il cambio di destinazione d’uso fra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee integra una vera e propria modificazione edilizia che, incidendo sul carico urbanistico, necessita di un previo permesso di costruire, non assumendo rilevanza l’avvenuta esecuzione di opere (Consiglio di Stato, Sez. VI, 12/10/2020, n. 6097).
Aggiungo pure che un altro nodo che apre a possibili difficoltà applicative riguarda l’ammissibilità dei cambi di destinazione d’uso all’interno della manutenzione straordinaria art. 3 comma 1 lettera b) DPR 380/01, quando non comporta incremento di carico urbanistico ancorché urbanisticamente rilevante.
Come già detto, non esiste una “scaletta ufficiale” delle modifiche funzionali che incrementano o diminuiscano i carichi urbanistici.
Legislazione regionale concorrente, limiti chiariti dalla Consulta
Tale articolo ha portata vincolante per le regioni, rappresentando un livello di principio generale, visto che la Corte Costituzionale ha più volte affermato che:
«sono principi fondamentali della materia le disposizioni che definiscono le categorie di interventi, perché è in conformità a queste ultime che è disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche penali (così Corte cost. n. 309 del 2011), sicché la definizione delle diverse categorie di interventi edilizi spetta allo Stato (sentenze n. 102 e n. 139 del 2013)» (sentenza n. 259 del 2014).
Lo spazio di intervento che residua al legislatore regionale è quello di «esemplificare gli interventi edilizi che rientrano nelle definizioni statali», a condizione, però, che tale esemplificazione sia «coerente con le definizioni contenute nel testo unico dell’edilizia» (sentenza n. 49 del 2016).
Tali principi sono stati di recente ribaditi da Corte Cost. n. 68/2018 che ha dichiarato incostituzionale una norma di una legge regionale dell’Umbria che aveva disatteso proprio il contenuto dell’art. 23-ter del d.p.r. 380/2001.
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CARLO PAGLIAI, Ingegnere urbanista, esperto in materia di conformità urbanistica e commerciabilità immobiliare
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