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Torna in ballo il confine tra interventi di nuova costruzione e di ristrutturazione edilizia, sopratutto con la recente sentenza emessa dal Consiglio di Stato n. 8542 del 4 novembre 2025 riguardante proprio un intervento in Milano, in cui sono stati esaminati nuovamente i principi di continuità con l’organismo edilizio e neutralità di impatto sul territorio, i quali rimangono presupposti per rientrare nella categoria di ristrutturazione edilizia ricostruttiva. Si tratta di una cattiva notizia per gli immobili coinvolti dalle inchieste di Milano per presunti abusi edilizi, si tratta invece di una buona notizia per gli addetti ai lavori e professionisti, in quanto è stato dettagliato ulteriormente il confine tra intervento ricostruttivo e la cosiddetta sostituzione edilizia.

Tuttavia i nervi sono tesi come lame affilate sull’argomento, e si capisce dal tenore dei commenti scritti nei post pubblicati sui miei profili social: da una parte ci sono i commenti di coloro che continuano a sostenere l’errore interpretativo della magistratura (che ora, secondo costoro, diverrebbe trasversale tra Cassazione penale e Consiglio di Stato, qualcuno ipotizza perfino una congiura urbanistica contro Milano), e da una parte i commenti soddisfatti di coloro che ritengono che giustizia sia fatta contro i palazzinari.

Su questa diatriba non entro in merito, o quanto meno non è questa la sede giusta, potendo rinviare ai miei numerosi video sul canale YT. Preferisco piuttosto esporre di seguito una analisi speditiva e volutamente riduttiva di quanto emerge dall’anzidetta sentenza C.d.S. n. 8542/2025. In una sola frase: è stata lievemente rivista “in meglio” la linea di confine tra nuova costruzione e ristrutturazione ricostruttiva (cioè demolizione e ricostruzione integrale), allentando di un infinitesimo la rigida nozione di continuità tra vecchio e nuovo organismo edilizio (a mio avviso un pò eccessiva quella rigida). Tuttavia, si tratta di una carezza chiarificatrice che non aiuta affatto le casistiche contestate alle numerose inchieste milanesi.

L’esatta distinzione dei confini tra “ristrutturazione ricostruttiva” o “demoricostruzione”, è stata oggetto di corposa stratificazione normativa e giurisprudenziale, sulla quale da tempo si è resa necessaria la chiarezza da parte degli operatori del settore (esplosa con l’inchieste della Procura di Milano), sopratutto per perseguire da una parte obiettivi di rigenerazione urbana, contenimento del consumo di suolo, incentivazione degli investimenti, ma dall’altra incide significativamente sul “governo del territorio”. Per quanto di interessa in questo post, la trattazione farà soltanto alla più recente nozione contenuta nell’articolo 3, comma 1, lettera d) del Testo Unico Edilizia, comprensiva delle modifiche apportate dal D.L. 76/2020 (L. 120/2020), dal D.L. 17/2022 (D.L. 34/2022) e D.L. 50/2022 (L. 91/2022).

Sicuramente la definizione di ristrutturazione edilizia presente nell’art. 3, comma 1, lettera d), del Testo Unico dell’edilizia è stata caratterizzata da un progressivo allontanamento dall’obbligo originario della fedelissima ricostruzione, mediante eliminazione dei vari vincoli e conseguente estensione della nozione di “ristrutturazione”, rendendo ancor più necessario un chiarimento sui suoi confini rispetto alla “nuova costruzione”. Questo confine negli ultimi anni, o forse negli ultimi mesi, è stato oggetto di ondivaghe prese di posizioni tra Cassazione Penale, Tribunali Amministrativi Regionali e infine il Consiglio di Stato.

In particolare, il principale oggetto di discussione è stato proprio il rapporto di continuità tra vecchio e nuovo organismo edilizio (vedi Cassazione Penale n. 1669/2023), e il relativo rapporto all’interno del lotto di pertinenza. Pochi mesi fa, per esempio, il C.G.A.R.S, con sentenza n. 422/2025 ha ritenuto ammissibile la l’intervento di ristrutturazione ricostruttiva anche con caratteristiche molto differenti rispetto al preesistente, salvo il rispetto del limite della volumetria presistente, perfino su di un diverso lotto (sul punto però si riscontra anche giurisprudenza contraria in tema di trasferimento delle cubature nelle ristrutturazioni edilizie).

Per comprendere al meglio la più precisa distinzione tra nuova costruzione e ristrutturazione edilizia, operata da ultimo la sentenza n. 8542/2025 del Consiglio di Stato, si riporta integralmente i punti dal 17.5.3 al 19 compresi, evidenziando quelle parti essenziali:

17.5.3. Infine, dall’art. 3, comma 1, lettera d), del t.u. dell’edilizia si ricava che il volume dell’edificio ricostruito non può superare quello del fabbricato demolito, perché si stabilisce che gli incrementi di volumetria sono ammissibili «nei soli casi espressamente previsti dalla legislazione vigente o dagli strumenti urbanistici comunali» (sul punto, Cons. Stato, sez. IV, 2 maggio 2024, n. 4005 ha chiarito che «a differenza della fattispecie della ricostruzione con diversa sagoma e sedime, le modifiche e gli ampliamenti volumetrici di manufatti edilizi continuano ad integrare, di regola, interventi di nuova costruzione (art. 3 comma 1 lett. e. 1 D.P.R. n. 380/2001), sicché, ai sensi del richiamato art. 3 comma 1 lett. d) del D.P.R. n. 380/2001, l’incremento volumetrico eccezionalmente (art. 14 disp. prel. cod. civ.) conseguibile con un intervento di ristrutturazione edilizia è soltanto quello specificamente ammesso una tantum dalla legislazione vigente o dagli strumenti urbanistici comunali per tale tipo di intervento edilizio e non quello (eventualmente) maggiore connesso all’indice edificatorio previsto per gli interventi di nuova costruzione o di ristrutturazione urbanistica»).
Tale limite, letto in un’ottica sistematica, comporta che devono ritenersi escluse – meglio, conducono a qualificare l’intervento come “nuova costruzione” – tutte quelle opere che non siano meramente funzionali al riuso del volume precedente e che comportino una trasformazione del territorio ulteriore rispetto a quella già determinata dall’immobile demolito.
Infatti, nelle varie evoluzioni della nozione di “ristrutturazione ricostruttiva” che si sono susseguite, è rinvenibile un minimo comune denominatore, consistente nel fatto che l’intervento deve comunque risultare “neutro” sotto il profilo dell’impatto sul territorio nella sua dimensione fisica.
Tale condizione, sicuramente sottesa a quella “fedele ricostruzione” che si pretendeva in origine, deve ritenersi presente anche nell’attuale quadro normativo e si evince dall’art. 10 del d.l. n. 76 del 2020 (conv. in legge n. 120 del 2020), il quale, pur avendo eliminato i «precedenti requisiti presupponenti una rigida “continuità” tra le caratteristiche strutturali dell’immobile preesistente e quelle del manufatto da realizzare» (C.g.a., sez. giur., sent. n. 422 del 2025), ha comunque ricondotto tali innovazioni agli scopi di «assicurare il recupero e la qualificazione del patrimonio edilizio esistente» e di «contenimento del consumo di suolo», così confermando la finalità “conservativa” sottesa al concetto di ristrutturazione (Cons. Stato, sez. IV, sent. n. 2857 del 2025).
18. Nel caso di specie, le caratteristiche dell’intervento posto in essere dalla società proprietaria del bene esorbitano dai confini della nozione di “ristrutturazione ricostruttiva”, come sopra delineati, e inducono a qualificarlo come “nuova edificazione”, con ciò che ne consegue in termini di titolo abilitativo necessario (il permesso di costruire, non sostituibile dalla Super-Scia) e limiti applicabili all’attività edilizia.
Su questo punto essenziale – e assorbente rispetto a ogni altra questione sostanziale – la sentenza di primo grado merita dunque conferma, seppur con la precisazione che, in ossequio al principio di legalità di cui all’art. 97 Cost. e alla luce del testo vigente dell’art. 3 del t.u. dell’edilizia, nella “demoricostruzione” non può pretendersi una “continuità” tra il nuovo edificio e quello precedente se non nella misura in cui per essa s’intenda il doveroso rispetto dei requisiti, sopra indicati, dell’unicità dell’immobile interessato dall’intervento, della contestualità tra demolizione e ricostruzione, del mero utilizzo della volumetria preesistente senza ulteriori trasformazioni della morfologia del territorio.
19. Premesso che il superamento di uno solo di questi limiti comporterebbe di per sé solo la qualificazione dell’intervento come “nuova costruzione”, nella specie essi risultano tutti inosservati.

Senza pretesa di esprimere alcuna opinione “pro-veritate”, al momento è da ritenersi condivisibile questa linea espressa dal Consiglio di Stato; chissà quali sorprese emergeranno dall’evoluzione della giurisprudenza.

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Carlo Pagliai

CARLO PAGLIAI, Ingegnere urbanista, esperto in materia di conformità urbanistica e commerciabilità immobiliare CONTATTI E CONSULENZE

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